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Biografia di San Camillo De Lellis

Sacerdote

San Camillo De Lellis

Nel 1574, a ventiquattro anni d'età, Camillo De Lellis, d'origine abruzzese, era un uomo finito.

Era nato da una madre molto anziana,”già bianca di capelli e con la faccia crespa”dicono le cronache, tanto che la gioia della gravidanza si mescolava un po' alla vergogna. Aveva sessant'anni. La gente, ricordando il Vangelo, la chiamava S. Elisabetta. E la donna sentiva talmente il miracolo di quella nascita insperata che, quando fu l'ora, e il parto si annunciava assai difficile, scese nella stalla per vedere di far nascere il bambino su una mangiatoia,”come Gesù e S. Francesco”. E lì il bambino nacque la domenica di Pentecoste dell'anno Santo 1550 mentre le campane suonavano a festa al momento della Elevazione. Era un bambino molto più robusto e più alto del normale (da grande sopravvanzerà quasi tutti dalla testa in su) ma la madre aveva anche il cuore stretto a causa della tarda età e di qualche triste premonizione.

Di fatto, nessuno riuscì ad educarlo. Il padre, quasi sempre lontano, era capitano di fanteria e militava nella tristemente celebre masnada dl Fabrizio Maramaldo.

Lui personalmente, Giovanni De Lellis, era pero' considerato come uomo dabbene e anche, in qualche modo,”buon cristiano”, anche se iniziò la sua carriera militare partecipando al terribile Sacco di Roma nel 1527 e la concluse con un episodio analogo nel 1559.

Non riuscì comunque ad essere un buon genitore.
Gli morì la moglie quando Camillo aveva solo tredici anni ed era già allora un piccolo ribelle irriducibile; così il bambino iniziò ad accompagnare il padre da un presidio militare all'altro, assimilando da lui una passione distruttiva per il gioco dei dadi e delle carte, e, dall'ambiente un atteggiamento da bravaccio involgarito.

Il padre morì, mentre a 70 anni suonati cercava di arruolarsi nella guerra contro i Turchi, dopo aver arruolato il figlio nella sua compagnia. Aveva perso tutto. Al figlio lasciava soltanto la spada e il pugnale.

Camillo era giudicato da tutti”fantastico, liberotto e bizzarro”, ciò che nel linguaggio del tempo vuol dire: scriteriato e violento, non senza impeti di generosità, tuttavia.

Per alcuni anni, salvo una pausa preoccupante, di cui diremo, visse la vita del soldato di ventura, giocandosi la vita nelle battaglie, nelle risse, per potersi poi giocare i soldi così guadagnati.

Di compagnia in compagnia scenderà sempre più la scala della dignità, anche militare, arruolandosi in bande malfamate.

Nel 1574 scampò ad un naufragio e, sceso a terra a Napoli, fu preso da una tale frenesia da giocarsi letteralmente tutto; la liquidazione del congedo, la spada, l'archibugio, i fiaschi della polvere il mantello. Dire che”perse anche la camicia”non fu un modo di dire.

Finì randagio come un cane, vagabondando senza meta, con vergogna, rubando, elemosinando davanti alle chiese con”infinito rossore”. Alla fine dovette adattarsi a lavorare per la costruzione di un convento di cappuccini conducendo due giumenti carichi di pietre, calce e acqua per i muratori.

Rifiutava la fatica con tale violenza da mordersi le mani per la rabbia, tentato, come confiderà più tardi, di scannare i due giumenti e fuggire.

Ma la vicinanza di quei frati, appena riformati e ancora nel loro pieno fervore, non gli era indifferente.

Già nel passato quando si era preso in battaglia qualche terribile spavento, aveva fatto un mezzo voto, subito rimangiato, di farsi frate.

Durante un viaggio al convento di S. Giovanni Rotondo, era l'anno Santo 1575, incontrò un frate che se lo prese in disparte per dirgli:

“Dio è tutto. Il resto è nulla. Bisogna salvare l'anima che non muore...". Nel lungo viaggio di ritorno, tra gli anfratti del Gargano, Camillo meditava.

Ad un tratto scese di sella, si buttò a terra piangendo:

“Signore, ho peccato. Perdona a questo gran peccatore! Me infelice che per tanti anni non ti ho conosciuto e non ti ho amato. Signore, dammi tempo per piangere a lungo i miei peccati”. Chiese di diventare cappuccino, ma per due volte venne dimesso dal convento, e il motivo è legato a quell'episodio che finora ho omesso di raccontare.

Già al tempo delle sue scorribande guerresche con Il padre, nella gamba di Camillo s'era aperta una piaga che resterà incurabile per tutta la vita e diverrà sempre più orribile. Un medico che lo visiterà a Genova dirà poi che era”un'ulcera putrida, corrosiva e cava grandissima”

Qualcuno pensa oggi che si trattasse del terribile male del secolo: la sifilide acquisita o ereditaria, dovuta ai suoi vizi o a quelli del padre. La maggior parte dei biografi lo esclude e si parla solo di ulcere distrofiche.

Comunque Camillo apparteneva ormai alla categoria degli '"incurabili”

Era già stato per un periodo all'Ospedale romano di S. Giacomo, dove si trattavano appunto le più orribili malattie e vi si era perfino impiegato per curare gli altri malati. Avevano dovuto cacciarlo via perché era soprattutto”malato di molto terribile cervello": attaccabrighe, prepotente, negligente, sempre alla ricerca di soddisfare la passione del gioco.

Si calava persino dalle finestre, nottetempo, per andare a cercare barcaioli e facchini con cui intrattenersi fino all'alba, giocando. Tornò, per la seconda volta, all'ospedale come novizio cappuccino. L'atteggiamento era assai diverso, caritatevole, però riservato. Camillo pensava soprattutto al suo convento. Finalmente poté tornarvi e la piaga ricominciò ancora a suppurare. I Cappuccini decisero la sua definitiva dimissione. E Camillo tornò a quell'ospedale a cui la malattia sembrava incatenarlo.

E' bene qui fermarsi a descrivere qual era la situazione degli ospedali del tempo, sapendo che comunque quelli di Roma erano i migliori del mondo.

All'ospedale degli incurabili giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che venivano addirittura scaricati sulla porta dell'edificio.

Normalmente vi erano disponibili una settantina di letti, che diventavano cinquecento ad anni alterni quando si somministrava una cura radicale (la cura dell'acqua del legno, costosa e celebre a quel tempo). Era soprattutto la cura della sifilide, ma anche di chi pensava di doversi in qualche modo”smorbare". La vollero anche Torquato Tasso per il suo”umore malinconico”e Aldo Manuzio per gli occhi. Durava 40 giorni.
Ma se gli ospedali erano abbastanza celebri dal punto di vista della medicina di allora, erano terribili per un altro verso. A mala pena trovava chi volesse prendersi cura di quegli esseri ripugnanti, perfino i preti rifuggivano dall'assistenza religiosa. E i malati erano in mano a dei mercenari; alcuni, delinquenti costretti a quel lavoro con forza, altri, per non aver diversa possibilità di guadagno. Ciò che veniva è per noi inimmaginabile.

Ecco una pagina di un cronista del '600:
“Erano forzati... a servirsi, per così dire, della feccia del mondo cioè de Ministri ignoranti, banditi o inquisiti d'alcun delitto, confinandoli per penitenza e castigo dentro li suddetti luoghi...

Almeno certa cosa era che li poveri agonizzanti stavano allora o tre giorni interi, stentando e penando nelle loro penose agonie se ch'alcuno mai gli dicesse una pur minima parola di consolatione o conforto...

Quante volte... per mancamento di chi gli aiutasse e cibasse passavano li giorni interi che non gustavano alcuna sorta di cibo? Quanti poveri gravi, per non essergli rifatti i letti appena qualche volta tutta la settimana, si marcivano ne' vermi e nelle bruttezze?

Quanti poveri fiacchi levando da letto per alcun loro bisogno, cascando in terra morivano o si ferivano malamente? Quanti spasimandosi della sete non potevano haver un poco d'acqua per sciacquarsi rinfrescarsi la bocca? Onde molti come arrabbiati dal grande ardore sappiamo che si bevevano l'orina...

Ma questa che dirò hora chi la crederebbe mai? Quanti poveri morenti non ancor finiti di morire erano da quei giovani mercenari poco accorti pigliati subito da' letti e portati così mezzi vivi tra' corpi morti per essere poi sepolti vivi?...". Non sono esagerazioni, perché riscontri simili abbiamo da altri ospedali.

Quando Camillo e i suoi cominceranno a lavorare nell'ospedale maggiore di Milano (la”Ca' granda”) troveranno che i luoghi di decenza sono in tale stato che Camillo li considera”causa di morte":
“Iddio sa quanti ne morirono l'anno per questo andare a quelli sporchi, fetosi e fangosi lochi!".

Oltre ad una generale incuria, ci sono poi le violenze fisiche con cui i mercenari trattano i malati e li costringono letteralmente con pugni e schiaffi a prendere le medicine previste. A volte li sollevano dai letti con tale violenza che i malati gli muoiono in braccio.

Agli”Incurabili”Camillo è ormai noto per la sua conversione. Ben presto lo nominano Maestro di Casa, colui cioè che ha la responsabilità immediata dell'andamento economico ed organizzativo. Comincia a mettere ordine.

Sa per esperienza come e fatta quella”diavolata gente anormale”, conosce i trucchi degli scioperati per averli lui stesso esercitati, e diviene onnipresente. Notte e giorno. Compare quando nessuno se lo aspetta: richiama, rimprovera, costringe ognuno a far il suo lavoro e bene.

Controlla gli acquisti, litiga con i mercanti, rimanda indietro le partite di merce avariata. E, per quello che non può imporre, offre come modello se stesso.

Si tratta della”tenerezza”.

Lo vedono pulire a mani nude i volti dei poverelli divorati dal cancro, e baciarli.

Introduce, e cura lui personalmente il rito dell'accoglienza: ogni malato viene ricevuto alla porta, abbracciato, gli vengono lavati e baciati i piedi, viene spogliato dei suoi stracci, rivestito di biancheria pulita, sistemato in un letto ben rifatto.

Spiega ai mercenari che:”I poveri infermi sono pupilla et cuore di Dio et... quello che facevano alli detti poverelli era fatto allo stesso Dio”.

Comincia a radunare intorno a sé i più sensibili, prega con loro e a loro comunica (lui che a mala pena sa leggere e scrivere) i primi principi di una teologia della sofferenza.

Un pensiero fisso lo va ormai ossessionando; bisogna sostituire tutti i mercenari con persone disposte a stare coi malati solo per amore.

Vuole gente che”non per mercede, ma volontariamente e per amore d'Iddio gli servissero con quell'amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi”. Questo è il progetto. E desta subito preoccupazione. Quei pochi amici che sì ritrovano a pregare e a discutere sull'argomento sono isolati: c'è chi intravede già che interessi e abitudini verranno messi in discussione, altri sospettano che Camillo voglia impadronirsi dell'ospedale, altri ancora considerano il progetto irrealizzabile.

Lo stesso S. Filippo Neri, confessore di Camillo, lo sconsiglia perché crede che quell'uomo ignorante e senza lettere non è atto né sufficiente a governare gente congregata assieme”.

Da parte sua Camillo è tranquillo:”Mi pareva che tutto l'inferno non mi poteva disturbare né impedire l'incominciata impresa”. È convinto che gliela chiede lo stesso Cristo Crocifisso.

Capisce tuttavia che, per acquistare credibilità, lui e i suoi devono imboccare la strada del sacerdozio Riesce miracolosamente a farsi ordinare anche se di teologia speculativa non sa quasi nulla e non riesce nemmeno a scrivere una pagina senza fare molteplici e ridicolissimi errori di ortografia.

Lascia l'ospedale degli”Incurabili”dove ormai non lo vogliono più e raduna i suoi in una poverissima casetta dove hanno due coperte in tre, e la notte devono fare a turno per coprirsi; Cominciano la loro libera attività nel grande ospedale romano di Santo Spirito.

È il glorioso Hospitium Apostolorurn, l'ospedale voluto direttamente dal Papa e da lui affidato ai religiosi di S. Spirito. L'ha fondato Innocenzo III, il grande Papa del '200, perché in esso”abitassero i padroni (cioè i malati) e i servi (cioè tutti gli altri cristiani)”.

I frati che lo dirigono hanno fatto voto di essere”servi”dei loro padroni, gli infermi, per tutta la vita”.

Purtroppo, ai tempi di Camillo, questi”servi”sono ridotti a pochi e sono tornati ad essere più che padroni.

Sisto IV, il Papa della Cappella Sistina, rinnova l'ospedale con una tale magnificenza da riproporre almeno idealmente il valore originario.

Non molti sanno che, oltre alla Cappella Sistina, esiste anche una Corsia Sistina, quella di S. Spirito, che è una delle opere più belle di Roma.

Nessuna chiesa di Roma, nemmeno la Cappella Sistina, ha un ingresso così magnifico. Si è introdotti così in una corsia immensa: 120 metri di lunghezza, 12 di larghezza, 13 di altezza, col soffitto a cassettoni come quello delle più belle basiliche romane e al centro una splendida cupola ottagonale. Le pareti sono affrescate in alto, e in basso ricoperte da cuoio arabescato. Lungo le pareti due file dì letti per i malati, sopraelevati, ognuno con baldacchino a colonne, come dei troni.

In fondo alla corsia un'edicola del Palladio dove è esposta l'Eucaristia. Poi un grande organo su cui per due volte alla settimana si eseguono concerti, per i malati, durante i pasti.

L'ingresso nella corsia è libero. Chi entra tutte le mattine per ascoltare la Messa può poi servire quel Gesù che ha adorato nella Eucarestia, nel corpo malato dei suoi fratelli. Infatti all'ospedale di S. Spirito accedono liberamente tutti coloro che vogliono esercitare la carità:

l'assistenza volontaria è permessa e suggerita ai pellegrini che vengono a Roma, ai religiosi, ai sacerdoti, ai cardinali, ai letterati, agli artigiani, ai penitenti, ai peccatori che devono espiare, ai santi...

Con l'ospedale di S. Spirito è attuato anche strutturalmente quello che tutti gli ospedali dovrebbero essere secondo la concezione cristiana. Sul portale dell'ospedale Maggiore di Torino, e di molti altri, era scritto:

“Culto d'amore dovuto a Cristo, Dio e uomo, ammalato nei poveri”.

Al”S. Spirito”questa dichiarazione di fede era resa strutturalmente evidente.

Purtroppo, come vi si manifestava la fede grande della Chiesa, vi si manifestava anche la sua miseria terrena.

Gli uomini si mostravano di fatto indegni di quella solenne struttura: il problema dei mercenari era simile a quello che abbiamo già osservato per gli altri ospedali, i problemi igienici e il sudiciume umiliavano notevolmente quello splendore, il volontariato si tramutava in disordine, l'ideale in meschinità quotidiana.



Il”Santo Spirito”era una sorta di concretizzazione estrema del mistero e del paradosso della Chiesa.

In quel luogo, la cui riforma”umana”era ritenuta”impossibile”, per trent'anni lavoreranno Camillo e i suoi amici divenendo pian piano una nuova congregazione religiosa: l'ordine dei Ministri degli infermi.

Per essi l'ospedale è tutto, e vi lavorano cominciando lentamente ad assorbire su di sé tutta la fatica, imprimendovi la qualità carismatica della tenerezza.

A Camillo piace la musica. Qualche volta va nelle chiese a sentire dei concerti, ma quando esce dice:

“A me però di più gusta un altro genere di musica... quella che fanno i poveri infermi nell'ospedale quando molti assieme chiamano e dicono; Padre, dammi da sciacquare la bocca, rifammi il letto, riscaldami i piedi..."

Una notte lo vedono (citiamo nel nell'italiano antico):”stare ingenocchiato vicino a un povero infermo ch'aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tolerarsi tanto fetore, e con tutto ciò esso Camillo standogli appresso a fiato a flato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell'amor suo, chiamandolo particolarmente: Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio? pensando egli che fosse l'amato suo Signore Giesù Christo...".

“L'ho visto più volte, dice un testimone, piangere per la veemente commozione che nel poverello fosse Cristo, cosicché adorava l'infermo come la persona del Signore”.

Non voleva giorni di riposo. Quando lo obbligavano, perché non si sfinisse, tornava di nascosto.

Si portava addosso attaccato alla veste tutto ciò che poteva servire ai suoi malati: dall'acqua benedetta, al libro per raccomandare l'anima degli agonizzanti, all'acqua da bere, agli orinali; e perfino una”concolina di rame dove potessero, senza loro incomodo, sputare”.

Erano i paramenti e gli strumenti della sua liturgia.

A volte mentre imbocca i malati, Camillo racconta loro i suoi peccati perché è convinto di raccontarli direttamente al Signore. Ascoltiamo ancora le testimonianze.

“Quando pigliava alcuno di loro in braccio per mutargli le lenzuola, lo faceva con tanto affetto e diligenza che pareva maneggiare la persona stessa di Gesù Cristo”.

E non lasciava mai un malato che aveva servito senza baciargli le mani o il volto. Non sapeva più cosa fare per loro. Chi lo conosceva diceva che”se cento mani havesse egli havuto, tutte e cento le havrebbe impiegate e occupate in quel servizio”

E non è che ricevesse sempre in cambio riconoscenza.

Divenuto vecchio, dirà ai suoi frati.
“Ho ricevuto spesso pugni, schiaffi, sputi e villanie di ogni genere dagli infermi, con mio grande contento del testo e allegria, perché gli infermi mi possono non solo comandate ma far bravate, dirmi ingiurie e villanie come miei legittimi padroni”.

Un giorno si portava appresso uno dei suoi fraticelli più giovani per insegnargli a pulire i malati e si trovò con le mani imbrattate.

Il fraticello osservava con schifo. Camillo lo guardò:”Il Signore Iddio, disse, mi faccia la grazia di farmi morire con le mani impastate di questa santa pasta di carità”.

E a un altro faceva rimestare ben bene la paglia nei materassi dicendogli:”Vedi, è color dell'oro ed è veramente oro perché con questo si compra il cielo”.

Si scusava di non saper parlare d'altro che di carità verso gli Infermi, di essere, diceva, come un prete di campagna che sa leggere solo il messale:”così io non so dire altro che questo”.

Quando qualche sera tornava in convento, chiamava i suoi frati in capitolo, metteva un letto in mezzo alla sala, ammucchiava materassi e coperte, chiedeva a uno di distendersi, e poi insegnava agli altri come si rifaceva un letto senza disturbare troppo il malato, come si cambiava la biancheria, come bisognava atteggiare il volto verso i sofferenti. Poi li faceva provare e riprovare.

Ogni tanto gridava:”Più cuore, voglio vedere più affetto materno”Oppure:”Più anima nelle mani”.
Un giorno, arriva in Ospedale il Commendatore di S. Spirito (la più alta autorità') che chiede impazientemente di parlare con Camillo, ma lui sta imboccando un infermo:

“Dite a Monsignore, fa rispondere, che adesso sono occupato con Giesù Christo, appena avrò finito mi presenterò dinanzi a Sua Signoria illustrissima”. E non lo dice per puntiglio, ma perché ne è davvero convinto.
“Sembrava, dice il suo biografo che non vivesse più in se stesso. Soltanto Gesù e i poverelli vivevano in lui”.
Pian piano aumentano i giovani che gli si affidano per condividere la sua vita e Camillo comincia a”occupare”gli altri ospedali.

Giunge fino a Napoli, Genova, Milano, Mantova. Anzi, proprio a Milano scoppia la dura questione degli ospedali. Camillo di testa sua, senza consultarsi con nessuno, coglie l'occasione propizia per farsi affidare tutto l'ospedale, per curare cioè non solo l'assistenza ai malati ma l'intera gestione materiale di tutto.

Per Camillo non c'è distinzione tra materiale e spirituale. Tutto ciò che riguarda i malati lo vuole fare lui. I suoi frati non sono d'accordo perché, e con ragione, pensano che così si finisce per aiutare non i malati ma gli amministratori che risparmiano sulle spese, mentre i frati si distruggono letteralmente di fatica.

Ma per Camillo qualunque cosa riguarda anche lontanamente i suoi poverelli è sacra ed è da accogliere.

Intanto egli per primo si sfinisce.

Restò celebre lo straripamento del Tevere nel Natale 1598, quando Camillo davanti al pericolo, mentre frati e servi mugugnano e dicono che non c'è tanto rischio, li obbliga a trasportare al piano superiore tutti e trecento i malati con le loro robe.

Quando ha trasferito l'ultimo malato, il Tevere irrompe e l'acqua giunge a tre metri di altezza dal pavimento, sommergendo tutto. Ma i malati sono salvi.

A Camillo si ricorre per ogni emergenza, soprattutto in tempo di peste e di carestia, che scoppiano qua e là con violenza incredibile, quando i morti (che non si riesce a seppellire) sembrano”uccidere i vivi”.

Al termine della sua vita Camillo avrà fondato quattordici conventi, avrà preso la responsabilità di otto ospedali (quattro, completamente) e avrà con lui 80 novizi e 242 religiosi professi.

- Ormai vecchio si ritira da ogni incarico di superiore e chiede di potere abitare e morire nell'ospedale di S. Spirito per poter chiudere gli occhi tra i suoi poverelli.

Al generale dei Carmelitani Scalzi che va a trovarlo, dice:”Sono stato un gran peccatore, giocatore e uomo di mala vita”. Ma può anche dire di sé:”Da che Dio mi ha illuminato e chiamato al suo servizio non mi ricordo, per grazia del Signore, d'aver mai commesso peccato mortale e neppure veniale volontario”.
Una sera un frate mette dentro la testa nell'infermeria dove Camillo si sta spegnendo e lo vede che sta contemplando un quadro dove lui stesso è ritratto ai piedi del Crocifisso.

“Che fo?, risponde Camillo, Sto aspettando una buona nuova dal Signore: 'Venite benedetti del Padre mio perché ero infermo e mi avete visitato'“.

Muore a 64 anni, ma prima ha voluto scrivere il suo testamento per lasciare in eredità tutto se stesso. Lo fa firmare dai suoi frati e chiede che glielo mettano al collo e lo lascino così fin dentro la tomba.

Il testamento è una totale e minuziosa consegna di se stesso:

“Io Camillo de Lellis... lascio il mio corpo di terra alla medesima terra di dove è stato prodotto.

...Lascio al Demonio, tentatore iniquo, tutti i peccati e tutte le offese che ho commesso contro Dio e mi pento sin dentro l'anima...

ltem lascio al mondo tutte le vanità... e desidero cambiare questa terrena vita con la certezza del Paradiso... tutte le robbe mie con gli eterni beni, tutti gli amici con la compagnia dei Santi, tutti li parenti con la dolcezza degli Angeli e finalmente tutte le curiosità mondane con la vera visione della faccia di Dio.

Item lascio et dono l'anima mia e ciascheduna potestà di quella al mio amato Gesù e alla sua S, Madre... e all'angelo mio Custode

Item lascio la mia volontà nelle mani di Maria Vergine Madre dello Onnipotente Iddio e intendo non volere se non quello che la Regina degli Angeli vuole.

Finalmente lascio a Giesù Christo Crocefisso tutto me stesso in anima e corpo e confido che, per sua immensa bontà e misericordia, mi riceva e mi perdoni come perdonò alla Maddalena, e mi sarà piacevole come lo fu al buon ladrone nell'estremo di sua vita stando in Croce...".

Infatti spirò sorridendo proprio mentre il Sacerdote che lo assisteva pronunciava queste parole delle preghiere degli agonizzanti:”Mitis atque festivus Christi Jesu tibi aspectus appareat”,”Cristo ti mostri il suo volto mite e festevole”

Oggi l'azione di Camillo de Lellis che riempì l'Italia intera della sua carità per i malati può sembrare lontana nel tempo e non più così necessaria.

I nostri ospedali, i nostri malati, si dice, non sono più in quelle tragiche condizioni in cui Camillo si immerse con la sua violenta tenerezza.

In realtà le cose non stanno proprio così. Alcuni episodi che si raccontano di S. Camillo de Lellis, ad esempio, li possiamo rileggere tali e quali nella vita di Madre Teresa di Calcutta e delle sue suore che hanno abbracciato e fatto morire”come angeli”migliaia di poverelli trovati agonizzanti nelle strade e nelle fogne, e si offrono ancora, da sole, per riconoscere Cristo in tutti gli appestati dei nostri giorni.

Tuttavia, almeno in occidente, gli ospedali non sono più quei luoghi terribili che abbiamo stasera descritto, almeno finché riusciremo a contenere le epidemie e le infezioni mortali.

Non sappiamo infatti come, noi uomini moderni, reagiremo se dovesse tornare quel giorno in cui la cura dei malati volesse dire concretamente rischio quotidiano della propria vita da parte di medici, infermieri, inservienti ecc. I segnali in proposito non sono certo incoraggianti, e il panico e l'egoismo farebbero rapidamente ripiombare nel caos innominabile anche le nostre moderne strutture. Allora occorrerebbero soltanto dei Santi e soltanto la Chiesa potrebbe fornirli.

Ma ancora più grave è l'orrore umano che permane sotto la scorza della nostra igiene sanitaria e della nostra bravura medica.

I peccati che la Chiesa denuncia oggi (il massacro degli innocenti attraverso l'aborto, la manipolazione degli embrioni, l'eutanasia nascostamente o apertamente praticata) se venissero descritti e osservati nella loro concreta fatticità e disumanità, non ci apparirebbero meno crudeli e ripugnanti. Anzi. Ciò che abbiamo guadagnato sui secoli scorsi è la capacità di far scomparire velocemente le tracce.

Del resto perfino quei malati che oggi sono ancora ben ospitati e ben curati (e si va già dicendo qua e là che dovrà essere lo Stato prima o poi a determinare chi merita questo trattamento, dato che bisognerà decidersi ad applicare ferree leggi economiche anche alla sanità), spesso lamentano d'essere non delle persone, ma delle”parti”malate consegnate ai medici e infermieri con la speranza che le restituiscano risanate.

Né l'uomo malato riceve una considerazione integrale, né chi lo cura gli si offre interamente: l'incontro, nel migliore dei casi, tra una malattia e una competenza; il resto è anonimo, e la solitudine è amara. Anche su questo l'antica”totalitarietà”vissuta e insegnata da S. Camillo, la sua capacità di condivisione da persona a persona, risplendono alte come un sole.

Anche i nostri ospedali osserva giustamente un moderno biografo del nostro Santo, non sono più luoghi consacrati al dolore e all'incontro tra gli uomini, ma spesso soltanto”case profanate e contaminate dai calcoli dell'interesse, dall'ambizione, dalla insensibilità dei sani”.

In ogni caso il problema non sarà risolto fin quando il malato non sarà considerato come persona sacra.

Oggi, in tempo di incombente eutanasia, non possiamo non ricordare che a Bologna e a Piacenza i figli di S. Camillo furono chiamati dal popolo”Padri della buona morte”, e a Firenze e in Toscana:

“I Padri del bel morire”.

Per tutti i problemi degli uomini, la Chiesa ha risposte che sono conservate non solo nella sua intelligenza, ma soprattutto nella sua memoria, nel ricordo cioè dei suoi Santi che hanno talmente amato Cristo da immergersi totalmente, con carità, in tutto ciò che è umano.

Un ministro del governo indiano, paragonando i risultati ottenuti da Madre Teresa a quelli ottenuti dall'assistenza pubblica, un giorno le disse con ammirazione e un po' di tristezza: la differenza tra noi e voi è questa:”noi lo facciamo per qualcosa voi lo fate a qualcuno”.

È questo tutto il segreto e lo splendore del cristianesimo: che tutto e tutti sono segni di Qualcuno che di tutto e di tutti è il Redentore.

Vorrei leggervi quest'ultimo piccolo episodio della vita di Camillo come conclusione di tutto, quasi per fissare un'immagine:
“Una volta... vedendo egli che molti poveri stavano buttati per terra sopra la paglia, per essere i letti pieni, e stando esso rimirandogli fu addimandato perché stesse così addolorato. Egli rispose: io sto mangiando pane di dolore, per vedere patire questi membri di Giesù Christo”.
Per lui vivere significava”morire a se stessi per vivere a Gesù Cristo crocifisso nei malati”.

Libri San Camillo De Lellis
Data creazione biografia: 2 gennaio 2006
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